Una ricchezza tutta made in Basilicata
C’era una volta l’Enotria, una grossa regione dell’Italia meridionale che comprendeva parte della Campania, quasi tutta la Basilicata e parte della Calabria, fino all’Istmo di Catanzaro. Il suo nome, derivava proprio da ôinos, ovvero vino, in greco, a testimonianza della grande abbondanza di viti e della grande varietà di vitigni presenti una volta sulla sua terra.
Sono passati secoli e, per l’assimilazione romana, per le numerose dominazioni o per la fillossera, questa varietà è stata purtroppo dimenticata, e anche quando si parla di vino lucano di qualità, proveniente quasi sempre da uve Aglianico, si riscontra che non ha la risonanza che merita, poiché riconosciuto (erroneamente) come autoctono solo della Campania. Dove sono finiti i vitigni autoctoni? Possiamo recuperare in qualche modo un pezzo prezioso della nostra storia?
Queste sono le domande che si è posta nel 2008 Alsia, l’Agenzia Lucana di sviluppo e innovazione in agricoltura, con la regione Basilicata, il Comune di Viggiano (PZ), e altre associazioni di ricerca agricole e storiche. Dal loro lavoro congiunto, è nato Basivin Sud, un progetto che si è proposto di fare una approfondita ricerca sulle uve nelle aree del Vulture, del Materano, della Val d’Agri e del Massiccio del Pollino, in modo da riscoprire la biodiversità delle uve lucane.
Le ricerche hanno dato esiti sorprendenti. In primo luogo, si è appurato che molte delle uve che noi riteniamo internazionali, in particolar modo il Pinot Nero, sono in realtà autoctone della Basilicata, poi successivamente portate all’estero dai commerci. Ma, più importante, sono state scoperte ben 51 uve già note, esclusive di un solo luogo, o dimenticate, e 48 uve autoctone, un patrimonio di ampelografia inestimabile. Tra queste nuove uve, le più vocate a bacca bianca sono senza dubbio la Giosiana, uva a bacca rossa di grande struttura e adatta a lunghi affinamenti, la Iusana, dal grande profilo olfattivo, la Santa Sofia, molto equilibrata, ma soprattutto l’Aglianico bianco, dotato di grande freschezza e sapidità. Tra quelle a bacca nera troviamo meraviglie come il Primitivo di Viggiano e l’Uva nera antica di Viggiano.
Tutto ciò dimostra che il vino lucano ha tanto ancora da dare, nonostante la sua voce bassa in mezzo al coro, e soprattutto ha qualcosa di proprio da dire, in barba a tutti quelli che pensano che non ci sia nulla o che sia un’imitazione della Campania. La responsabilità più grande, però, ricade, secondo noi, sui lucani.
Per fare risaltare la viticoltura lucana in questo coro nazionale, bisogna spingerla, un po’ come quello zio che ti buttava in acqua per imparare a nuotare. Bisogna osare, avere il coraggio di vinificare queste nuove varietà, sperimentare diverse tecniche di produzione, non solo per non cadere nella banalità, ma per raccontare meglio il nostro territorio, che non è composto da una voce, ma da tante voci. Dovremmo anche mostrare più coesione fra di noi, dialogare, imparare l’uno dall’altro per arricchirsi e, una volta cresciuti, mostrare la bellezza della nostra diversità al mondo.